E se c’è un senso è in questa notte.
In questo mare iroso e nero che si mescola e confonde al cielo,
tutt’uno sino all’orizzonte.
In questa notte… onda parte di te,
aggrappata a quell’ira che la squarcia e dissolve, fin sugli scogli
per poi tornare, ripresa e riportata via,
a caricarsi altrove.
Un senso nell’essere goccia, a perdersi in onda.
Un senso da cogliere
per scacciare il pensiero di essere schizzata a riva,
a disperdersi dentro a uno spazio di sabbia,
dove il mare non saprebbe trovarla.
Meglio goccia vaporizzata al sole e trasformata in parte di nube,
così da concentrarsi in tempesta e ricadere su te
in forma di grandine
per colpirti in quel tuo moto agitato
a sedarne infine la rabbia, spegnendola,
in una quiete perfetta.
Giusto il tempo di stordirti.
Quel tanto, anche poco,
utile per abbracciarti in attesa di una nuova
immancabile tempesta.
A ricominciare.
Che dire, se negli anni ’70, d’estate, qualcuno vedeva una bimba solitaria con cappellino marinaro seduta sul bordo di un vecchio pontile di legno presso l’Arenella di Portovenere, con una lenza in mano, ero io. Non ricordo quando ho cominciato, ma a 7 anni per certo inseguivo babbo sott’acqua, lui a pesca col fucile, io dietro col retino imperterritamente convinta di riuscirvi anche così. Ormai è storia (vecchia) che in assenza di lenza e retino mi arrangiavo pescando piccole bavose di scoglio anche col sacchetto del bondì, doverosamente divorato prima. Per molti anni ho rilasciato tutte le prede, poi sono diventata ‘cattiva’ quando le dimensioni loro e mie sono aumentate. Ho avuto pochi ma magnifici maestri, che, bontà loro, mi portano appresso: pare io porti bene. Prediligo la pesca col vivo in mare, a bolentino traina e scarroccio; per poco (anno con ghiaccio sottile) mi è sfuggita la pesca nei laghi del Nord, ma ‘ce l’ho qui’...devo ritentare. Non amo descrivere tecniche (che lascio agli esperti) ma sensazioni. Per il resto sono archeologa.
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