Ricordo che guardavo quella vanga quando lui non c’era.
Il manico era lucidato e reso brillante dall’attrito delle sue mani ruvide erose dal sale.
Per qualche motivo la staffa era montata al contrario, mio padre vangava da mancino pur essendo destro e quella staffa montata alla rovescia mi impediva di usarla.
La guardavo d’estate quando lui non c’era e me lo ricordavo alla fine dell’inverno quando assaliva l’orto.
Aveva quel rapporto profondo e disperato che hanno con la terra i marinai, fatto della voglia di recuperare il tempo perso e di lasciare qualcosa dietro di se, una testimonianza del loro lavoro e del loro amore, la loro voglia di fecondare una moglie o un campo prima di partire, il loro testamento.
Aggrediva il lavoro approfittando di tutte le ore di luce per preparare quell’orto precisissimo e stracolmo che noi avremmo accudito svogliatamente e con ferocia per il tempo rubato ai bagni e ai giochi dell’estate.
Mi ricordo che nel suo faticare, nel suo sbuffare milioni di sigarette era accompagnato da un pettirosso.
Non so se fosse sempre lo stesso, ma tutti gli anni era lì, paziente, che saltellava nel solco appena aperto per raccogliere un verme o una larva.
Quando mio padre si fermava per l’ennesimo matrimonio fra il Bic e L’MS, il piccolo uccello si posava sul manico della vanga proprio in cima, appollaiato.
Non si guardavano ma sentivano entrambi la presenza dell’altro.
Si riconoscevano per quello che erano.
Migratori.
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